Carmelacromìa!

I colori di Osteria da Carmela posseggono un richiamo sacro(santo) ai colori della Madonna del Carmelo, detta Madonna Bruna, con un significato preciso:
Arancio solare aureole dorate e il fondo dell'icona = santità e sacralità
Pompeiano colore rosso della tunica sotto il manto = amore
Tufo scuro tunica color pelle di pecora del bambino e pelle della Madonna = agnello di Dio, fratellanza
Verdemare manto della Madonna = fertilità
Ogni colore è un’ispirazione, una storia, una tendenza e persino, scavando nella storia di Napoli, un’origine di un piatto e accompagnerà sempre le nostre (e le vostre) parole.
E con queste cromatiche premesse, ecco a voi...


Tracce di romanità, grecità e oriente nella cucina partenopea: il pesce (parte 1)

Tracce di romanità, grecità e oriente nella cucina partenopea: il pesce  (parte 1)

La cucina, soprattutto quella delle origini, ha sempre avuto un rapporto viscerale con quello che il territorio può offrire ai suoi abitanti. Da sempre in Campania il mare, insieme ai contesti montani, ha influenzato senza mezzi termini una cultura culinaria che si è poi strutturata  fino ad arrivare alle nostre tavole. Nello specifico, le popolazioni costiere della Campania hanno saputo unire con maestria le influenze provenienti dalle diverse invasioni, come quella primordiale dei Greci (Magna Grecia) e quella dei Romani, a ciò che naturalmente offriva il Mar Tirreno con tanta  generosità.

Nonostante l’immane catastrofe che lasciò dietro di sé l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., ancora oggi, grazie agli scavi di Pompei e Ercolano, possiamo ricostruire con maggiore precisione quelle che erano le usanze degli antichi campani sotto l’egida dell’Impero Romano e scoprire come il loro modo di vivere ha influenzato il nostro modo di mangiare e di cucinare. Non è raro ritrovare riferimenti diretti alla tradizione culinaria del periodo greco-romano,  essendo Pompei una sorta di magna enciclopedia dell’antropologia gastronomica, arricchita da grandi mosaici e affreschi in cui si individuano le antiche tracce dei gusti classici. Sulle case della città vesuviana compaiono negli affreschi diversi piatti di fattura greca raffiguranti pesci e molluschi, segno del consumo di piatti di mare in quell’epoca.

archeologia culinaria

Anche in epoca romana, i prodotti ittici erano parte integrante di quella che noi conosciamo oggi come “dieta mediterranea”, un regime nutrizionale a base di legumi, cereali, e corredata da prodotti di derivazione animale (come latticini e uova), pesce e carne (di cui non vi era molta disponibilità).  Qualsiasi persona, indipendentemente dalla propria classe sociale, poteva nutrirsi con i piatti a base di pesce. Era tuttavia l’estrazione sociale a determinare il tipo e la quantità di pesce consoni per un liberto, per uno schiavo o per un patrizio. Agli schiavi ad esempio era consentito mangiare i molluschi meno pregiati, come le “balorde”, che a Napoli chiamiamo non a caso le “cozze degli schiavi”. Mentre il ceto medio poteva gustare diversi tipi di pesce e molluschi.

La nostra abilità nel conservare i cibi sotto sale sicuramente risale ai nostri antenati romani, che con maestria conservavano la carne e il pesce per evitare il loro deterioramento. Un posto speciale nel cuore, e non solo dei commensali pompeiani, ma di tutti gli antichi campani, era quello occupato dal Garum. Il Garum, che prende il nome dall’anfora di terracotta in cui venivano conservate sotto sale le interiora di pesce, era un condimento fermentato molto apprezzato dai romani. Era ottenuto, come si è già detto, mettendo a fermentare in sale lo scarto dei pesci: tra i più usati a tale scopo vi erano le cosiddette “Vope”. Si tratta di un pesce appartenente alla famiglia della Sparidae, come il Sarago e il Dentice: normalmente non supera i 20 cm.

garum

Di Garum se ne ottenevano di diverse qualità: la qualità peggiore era ovviamente destinata alla razione giornaliera per gli schiavi. Vi era inoltre, la consuetudine di conservare sotto sale non solo le alici, ma anche tranci di tonno e di pescespada. Ben più elaborate erano le ricette di Garum che comparivano sulla tavola dei ricchi, arricchite con un gran numero di spezie, di cui molte esotiche. Sembra che questo modo di conservare il pesce non fosse solo una prerogativa dei popoli romani, ma come afferma Gabriele Carenti, esistono tantissimi esempi archeologici che testimoniano che la pratica del Garum fosse in voga in tutto il mondo allora conosciuto, come in Asia Minore, Tripolitania, Mauretania, Spagna, Gallia, Italia, Dalmazia.

garum

 

È proprio da questo metodo di lavorazione che  deriva  la famigerata Colatura di Alici (la cui più celebre versione odierna è quella di Cetara) uno dei piatti  i piatti tipici a base di pesce consumati abitualmente nella Pompei antica. Un altro piatto a base di alici e che tuttora troverete presente nelle cucine partenopee sono le alicette fritte alla scapece. Dopo essere state fritte, le alici venivano condite con l’aceto, al fine di favorire il loro mantenimento per diversi giorni.

 

 

pescatore libico

Le città portuali campane erano un bacino ittico di approvvigionamento senza eguali, data la spiccata capacità di queste zone costiere a produrre cozze, ostriche e murene di allevamento. Tra le piscine più conosciute vi sono quelle di Ventotene o di Terracina, ma è proprio sulla costa flegrea che Lucio Murena ideò i primi allevamenti di molluschi e murene, questo almeno secondo Plinio [fonte MIBAC]. Sulle coste vesuviane sono stati rinvenuti i resti di antichi allevamenti di ostriche, che confermano l’uso dei cocci di anfore a cui si cementavano le valve di ostriche, per farle poi proliferare.

In diversi scavi, sono stati rinvenuti inoltre dei veri e propri murenai domestici E una volta perfezionata la tecnica della itticoltura – grazie anche all’introduzione dell’uso del vetro- molte famiglie aristocratiche pompeiane introdussero le vasche con i pesci all’interno delle case, al fine di poter scegliere il pesce fresco che desideravano mangiare [fonte MIBAC].

Incredibile vero? Le tradizioni di 2000 anni fa, vivono e continuano ad esistere sulle nostre tavole imbandite. Del resto aveva ragione Feuerbach: Noi siamo quello che mangiamo, e la nostra storia si trova ancora in ciò che mangiamo.


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