Carmelacromìa!

I colori di Osteria da Carmela posseggono un richiamo sacro(santo) ai colori della Madonna del Carmelo, detta Madonna Bruna, con un significato preciso:
Arancio solare aureole dorate e il fondo dell'icona = santità e sacralità
Pompeiano colore rosso della tunica sotto il manto = amore
Tufo scuro tunica color pelle di pecora del bambino e pelle della Madonna = agnello di Dio, fratellanza
Verdemare manto della Madonna = fertilità
Ogni colore è un’ispirazione, una storia, una tendenza e persino, scavando nella storia di Napoli, un’origine di un piatto e accompagnerà sempre le nostre (e le vostre) parole.
E con queste cromatiche premesse, ecco a voi...


Racconti d’Osteria, una breve storia

Racconti d'Osteria, una breve storia

“pe’ mare nun ce stanno taverne”

Pulcinella

 

Il concetto di Osteria non è separabile da quello di convivialità. Come scrive il saggista e scrittore Jonathan Safran Foer:

“Non è solo quello che mettiamo in bocca a creare la convivialità, ma anche quello che ne lasciamo uscire. Esiste anche la possibilità che una conversazione sulle nostre convinzioni generi più convivialità – pur in presenza di convinzioni diverse – di qualunque cibo in tavola”.

L’osteria, potremmo dire, è la proiezione sociale della famiglia, intesa come luogo ove scambiare opinioni, affari, idee e confidenze: è qui infatti che si può superare il concetto del mangiare solo per nutrirsi, e acquisirne uno – del tutto nuovo – dello stare insieme intorno a del buon cibo. Questo concetto era ben conosciuto sin dall’epoca romana, quando già nelle tabernae vinarie prima, e nelle popine poi, si riuniva la popolazione per consumare un lauto pranzo o una cena ristoratrice seduti ai tavoli, sempre accompagnati da buon vino.

Napoli ovviamente ha ereditato queste antiche attività ristorative, anche perché proprio in quanto a convivialità il popolo partenopeo non è secondo a nessuno. La più famosa osteria partenopea è quella del Cerriglio, che funzionava in una posizione strategica, ovvero prospiciente al porto. Essendo un classico luogo di passaggio, la storia del Cerriglio (e di simili antiche tabernae)  è arrivata sino a noi proprio perché tramandata dalle bocche (e dalle penne) di poeti, artisti, intellettuali, ma anche del semplice popolino, che considerava l’Osteria un luogo liberatorio, spesso gaudente, dove le vite si mischiavano l’una nell’altra all’ombra di un buon bicchiere (o a volte una scodella). Si narra che la Taverna era già nota sin dalla fine del 1300, sia per la qualità della sua cucina e del suo vino, sia per il gran numero di clienti abituali; ma è nel 1600 che raggiunge l’acme della notorietà,  quando tra i suoi tavoli si aggirava il genio artistico di Michelangelo Merisi, detto “Caravaggio”. Si racconta infatti che per problemi legati al gioco d’azzardo o forse per un insulto d’onore l’eccelso pittore fu sfregiato al volto.  Solo nel 1669 – circa sessant’anni dopo l’episodio di Caravaggio –  il marchese di Crispano, per ordine del viceré, censì ben 210 tra taverne ed osterie.

Certo non possiamo dire che le osterie storiche partenopee sono divenute famose solo per gli artisti che orbitavano intorno ai loro tavoli. Sappiamo bene che Napoli è passata tra le mani di undici dominazioni in ottocento anni, durante i quali ha subito tantissime trasformazioni, anche in ambito culinario. Non è certamente un caso che Napoli, prima con gli Angioini e poi con i Borbone raggiunse livelli culinari d’eccellenza, riconosciuti già allora in tutto il mondo conosciuto. E quando nel 1761 con Carlo III si saldarono insieme le dinastie Borbone, Napoli divenne città europea alla stregua di Madrid e Parigi, anche dal punto di vista culinario. E se nella corte dei Borbone la casta dei cuochi – detti Monzù – rinsaldava i propri reggimenti con cuochi che provenivano da tutto il Regno, per le strade il popolino non restava a guardare.

Infatti la cultura culinaria partenopea è talmente multilivello che non esiste casta sociale che non ne sia protagonista, pur con le differenze dettate dalla disparità economica che ovviamente condiziona l’approvvigionamento delle materie prime necessarie per eseguire le ricette più nobili (a cui i napoletani sanno sempre rispondere con la massima inventiva e creatività). E le Osterie sono rimaste in auge anche quando i Borbone furono spazzati via, alla nascita dello Stato Italiano. Così gli intellettuali a cavallo dell’ottocento partenopeo si prodigarono per raccontare al meglio la propria esperienza culinaria. E stiamo parlando di personaggi del calibro di Giambattista Della Porta, Giambattista Basile, Carlo Celano, Benedetto Croce, Antonio Genovesi, Giulio Cesare Cortese e Salvatore Di Giacomo. E proprio quest’ultimo, tanto era appassionato delle osterie partenopee, che decise di realizzare nel 1899 un piccolo saggio raccolto nella rivista “Napoli Nobilissima” – fondata da Benedetto Croce proprio sulla storia delle taverne famose napoletane, corredato dagli ineguagliabili acquerelli di Gonsalvo Carelli. Questo saggio verrà poi ristampato nel 1914, segno del fatto che la passione per la cucina non si è mai affievolito a Napoli neanche con l’arrivo della Grande guerra. Insomma, la storia delle Osterie partenopea è arrivata sino a noi perché è una storia intrisa di vita di tutti gli avventori che animano le mura di questi locali storici.

Non è un caso che anche un’osteria cinquantenaria come l’Osteria da Carmela ha tanta storia da raccontare, molto più di quella che può contenere la nostra raccolta sala da pranzo: per questo motivo vi invitiamo a seguirci per i prossimi racconti sugli ospiti illustri che in questi dieci… lustri hanno frequentato la nostra Osteria.


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